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Tariffe professionali. Sentenza Sezione Unite della Corte di Cassazione n. 17406 del 12 ottobre 2012.

Con tale sentenza, nel recepire l’art. 41 del DM, ove si prevede che tali disposizioni si applicano alle liquidazioni successive
alla entrata in vigore del medesimo DM e, conseguentemente, dak 23 agosto 2012.
Anche se l’interpretazione della cassazione appare discutibile, in quanto nella sentenza si fa riferimento alla successione di tariffe
professionali, mentre il DL 1/2012 la tariffa è stata abbrogata e non ne è succeduta altre, se non ai parametri giudiziali dei lavori pubblici;
l’interpretazione data, inoltre, lascia intendere che si tratta di successione di tariffe e, di conseguenza, anche il DM parametri
deve essere considerato come una tariffa vera e propria, anche se la legge lo esclude.

La corte ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 5824/2012 proposto da:
COMUNE DI MONTECATINI TERME, in persona del Sindaco pro tempore,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI SCIALOJA 3, presso lo
studio dell’avvocato RIVELLESE Nicola, che lo rappresenta e difende
unitamente all’avvocato CANNIZZARO FABIO, per delega in calce al
ricorso;
– ricorrente –
contro
PUCCI VIA VENETO S.P.A. (gia’ SOC. GENERALE DEGLI ALBERGHI DI
MONTECATINI – SPATZ SUARDI S.P.A.), in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE
PARIOLI 180, presso lo studio dell’avvocato SANINO MARIO,
rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNELLI Giovanni, per delega
a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4834/2011 del CONSIGLIO DI STATO, depositata
il 29/08/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
25/09/2012 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;
uditi gli avvocati Fabio CANNIZZARO, Giovanni GIOVANNELLI;
udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. CENICCOLA
Raffaele, che ha concluso per l’inammissibilita’, in subordine
rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
L’occupazione nel 1981 di alcune aree appartenenti alla Spaz Suardi
Societa’ Grandi Alberghi s.p.a. (poi divenuta Pucci Via Veneto s.p.a.
e che in prosieguo verra’ indicata sempre come Pucci) ad opera del
Comune di Montecatini Terme, che intendeva costruirvi parcheggi
pubblici, dette origine ad un complesso contenzioso, in parte
afferente alla determinazione dell’indennita’ di occupazione ed in
parte al risarcimento del danno per l’intervenuta trasformazione di
dette aree e per la loro mancata restituzione, pur dopo la scadenza
del termine di durata dell’occupazione, senza che fosse stato emanato
alcun provvedimento espropriativo.
Con riferimento a quest’ultimo profilo, nel maggio del 2004, la
societa’ Pucci ricorse al Tribunale amministrativo regionale della
Toscana, il quale pero’ – dopo che le sezioni unite di questa corte
ne ebbero confermato la giurisdizione, pronunciandosi sull’istanza di
regolamento preventivo proposta dalla medesima societa’ (ordinanze
nn. 19608 ed 19609 del 2008) – rigetto’ la domanda in quanto ritenne
che il diritto dell’attrice al risarcimento del danno fosse
prescritto.
Della questione fu investito il Consiglio di Stato, che, con sentenza
depositata il 29 agosto 2011, riformo’ la decisione di primo grado,
poiche’, anche alla luce della sopravvenuta giurisprudenza della
Corte Europea dei diritti dell’Uomo, reputo’ che l’irreversibile
trasformazione delle aree occupate non ne avesse implicato
l’acquisizione in proprieta’ da parte della pubblica amministrazione,
potendo cio’ avvenire solo in forza di un accordo negoziale col
proprietario di dette aree o dell’emanazione di un regolare
provvedimento espropriativo (non realizzabile nelle forme accelerate
previste dal D.Lgs. n. 327 del 2001, art. 43, frattanto dichiarato
incostituzionale). Pertanto, il Consiglio di Stato ritenne che il
diritto della societa’ proprietaria al risarcimento del danno fosse
da correlare al mancato godimento delle aree indebitamente occupate,
a partire dal momento di scadenza del termine di occupazione
legittima sino a quando, in difetto di eventuale restituzione nel
pristino stato, la proprieta’ non fosse passata in capo
all’amministrazione in uno o nell’altro dei modi di acquisto sopra
richiamati. Donde il carattere permanente dell’illecito imputato alla
pubblica amministrazione, la conseguente impossibilita’ di
considerare prescritto il diritto al risarcimento del danno di cui
s’e’ detto, e la quantificazione di tale danno in misura
corrispondente agli interessi moratori, da calcolare annualmente sul
valore del bene nell’arco di tempo considerato, con maggiorazione di
interessi e rivalutazione monetaria.
Avverso questa sentenza il Comune di Montecatini Terme ha proposto
ricorso per cassazione, assumendo che il Consiglio di Stato avrebbe
travalicato i limiti della propria giurisdizione.
La societa’ Pucci si e’ difesa con controricorso, chiedendo la
condanna della controparte al risarcimento dei danni per
responsabilita’ processuale aggravata.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. L’eccezione d’inammissibilita’ del ricorso, prospettata in via
preliminare dalla difesa della societa’ controricorrente, non e’
fondata.
Al contrario di quanto affermato da detta controricorrente, infatti,
da alcun documento prodotto in causa e’ dato evincere che la sentenza
impugnata con il ricorso qui in esame – ossia la sentenza del
Consiglio di Stato n. 4834/2011 – era stata notificata al difensore
del Comune di Montecatini Terme. Ne consegue che, essendo stata detta
sentenza depositata in cancelleria il 29 agosto 2011, il ricorso per
cassazione, inviato per la notifica il 24 febbraio 2012, non puo’
dirsi affatto tardivo.
2. Il comune ricorrente lamenta il superamento, nell’impugnata
pronuncia, dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa,
limiti che non avrebbero consentito al Consiglio di Stato di
affermare – come ha fatto – che la proprieta’ delle aree di cui si
discute nel caso in esame non e’ stata acquisita dalla pubblica
amministrazione e che una tale acquisizione puo’ avvenire solo per
effetto di un accordo negoziale da stipulare con la societa’ Pucci o
all’esito di un regolare procedimento espropriativo. Cosi’ decidendo
il giudice amministrativo avrebbe, per un verso, inteso colmare la
lacuna normativa verificatasi a seguito della declaratoria
d’illegittimita’ costituzionale del D.Lgs. n. 327 del 2001, art. 43,
pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 293 del
2010, interferendo pero’ in tal modo indebitamente con la sfera delle
attribuzioni proprie del legislatore, e, per altro verso, avrebbe
invaso la sfera di competenza giurisdizionale del giudice ordinario,
cui spetterebbe valutare l’eventualita’ dell’acquisto della
proprieta’ delle aree da parte del comune per effetto di usucapione.
3. Il ricorso non e’ fondato.
Giova anzitutto ricordare che non e’ piu’ possibile mettere in
discussione la competenza giurisdizionale del giudice amministrativo
a conoscere della domanda di risarcimento del danno proposta dalla
societa’ Pucci nella presente causa, essendo stata tale questione
gia’ risolta dalle ordinanze (n. 19608 ed 19609 del 2008) con le
quali questa corte si e’ pronunciata in sede di regolamento
preventivo.
Cio’ premesso, e’ agevole rilevare come l’impugnata sentenza del
Consiglio di Stato, nel riformare la decisione del Tribunale
amministrativo che aveva rigettato la domanda di risarcimento del
danno per intervenuta prescrizione e nell’accogliere invece siffatta
domanda, determinando il criterio di liquidazione del danno da
risarcire, si e’ mossa nel medesimo alveo giurisdizionale nel quale
era precedentemente intervenuta la riformata pronuncia di primo
grado. In entrambi i casi il giudizio ha avuto ad oggetto il diritto
della societa’ Pucci di ottenere il risarcimento del danno subito in
conseguenza dell’illegittimo protrarsi dell’occupazione di aree di
sua proprieta’ senza l’intervento di alcun successivo provvedimento
espropriativo (quella che un tempo si era soliti definire
“occupazione acquisitiva”): diritto che il primo giudice ha reputato
fosse ormai estinto e che, viceversa, il giudice d’appello ha
considerato ancora in vita, procedendo percio’ a definire i criteri
di liquidazione del danno.
Gli argomenti che il Consiglio di Stato ha adoperato per giustificare
tale decisione – in particolare quelli concernenti le diverse
possibili modalita’ di acquisto legittimo della proprieta’ delle aree
in contestazione da parte della pubblica amministrazione, su cui si
appuntano le censure del comune ricorrente – sono null’altro che
passaggi motivazionali, volti a chiarire come il giudice di secondo
grado ha individuato gli estremi del danno risarcibile, a spiegare la
ragione per la quale egli ha reputato quel danno permanente ed il
relativo diritto non ancora prescritto ed a definire i criteri in
base ai quali il medesimo danno e’ destinato ad essere liquidato.
Anche a voler ammettere, per mera esigenza dialettica, che quegli
argomenti siano errati e che, come il comune ricorrente insiste nel
sostenere, si sarebbe dovuto tener conto della possibilita’ che le
aree delle quali si parla fossero state gia’ da alcun tempo usucapite
dall’amministrazione che le aveva occupate per realizzarvi dei
parcheggi pubblici, si tratterebbe di eventuali errores in iudicando,
ma non certo di uno sconfinamento dai limiti della giurisdizione del
giudice amministrativo, quali gia’ accertati nelle precedenti
ordinanze di questa corte sopra citate. Ne’ altrimenti e’ a dirsi per
il fatto che il Consiglio di Stato, formulando le argomentazioni cui
s’e’ fatto cenno, non abbia tenuto conto della sopravvenuta
emanazione da parte del legislatore, dopo la declaratoria
d’illegittimita’ costituzionale del D.Lgs. n. 327 del 2001, art. 43,
di un novello art. 42-bis del medesimo decreto (articolo introdotto
dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella L. 15 luglio 2011, n.
111, nell’intervallo di tempo compreso tra la data della decisione in
camera di consiglio e quella della pubblicazione della sentenza qui
impugnata); circostanza, questa, che, a tutto concedere, potrebbe
assumere rilievo in termini di eventuale violazione di legge, ma non
vale certo a configurare un’indebita invasione del giudice nella
sfera riservata al legislatore.
4. Il comune ricorrente, essendo rimasto soccombente, dovra’ pero’
rifondere alla controparte le spese del giudizio di legittimita’, che
vengono liquidate come in dispositivo, in applicazione dei criteri
stabiliti D.M. 20 luglio 2012, n. 140.
A tale ultimo riguardo giova ricordare che, a norma del D.M. 20
luglio 2012, n. 140, art. 41, che ha dato attuazione alla
prescrizione contenuta nel D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma
2, convertito dalla L. 24 marzo 2012, n. 271, le disposizioni con cui
detto decreto ha determinato i parametri ai quali devono esser
commisurati i compensi dei professionisti, in luogo delle abrogate
tariffe professionali, sono destinate a trovare applicazione quando,
come nella specie, la liquidazione sia operata da un organo
giurisdizionale in epoca successiva all’entrata in vigore del
medesimo decreto.
Reputa il collegio che, per ragioni di ordine sistematico e dovendosi
dare al citato art. 41 del decreto ministeriale un’interpretazione il
piu’ possibile coerente con i principi generali cui e’ ispirato
l’ordinamento, la citata disposizione debba essere letta nel senso
che i nuovi parametri siano da applicare ogni qual volta la
liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data
di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso
spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora
completato la propria prestazione professionale, ancorche’ tale
prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca
precedente, quando ancora erano in vigore le tariffe professionali
abrogate.
Vero e’ che il comma 3 del citato art. 9, D.L. n. 1 del 2012,
stabilisce che le abrogate tariffe continuano ad applicarsi,
limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, sino
all’entrata in vigore del decreto ministeriale contemplato nel comma
precedente; ma da cio’ si puo’ trarre argomento per sostenere che
sono quelle tariffe – e non i parametri introdotti da nuovo decreto –
a dover trovare ancora applicazione qualora la prestazione
professionale di cui si tratta si sia completamente esaurita sotto il
vigore delle precedenti tariffe. Non potrebbe invece condividersi
l’opinione di chi, con riferimento a prestazioni professionali
(iniziatesi prima, ma) ancora in corso quando detto decreto e’
entrato in vigore ed il giudice deve procedere alla liquidazione del
compenso, pretendesse di segmentare le medesime prestazioni nei
singoli atti compiuti in causa dal difensore, oppure di distinguere
tra loro le diverse fasi di tali prestazioni, per applicare in modo
frazionato in parte la precedente ed in parte la nuova regolazione.
Osta ad una tale impostazione il rilievo secondo cui – come anche
nella relazione accompagnatoria del piu’ volte citato decreto
ministeriale non si manca di sottolineare – il compenso evoca la
nozione di un corrispettivo unitario, che ha riguardo all’opera
professionale complessivamente prestata; e di cio’ non si e’ mai in
passato dubitato, quando si e’ trattato di liquidare onorari maturati
all’esito di cause durante le quali si erano succedute nel tempo
tariffe professionali diverse, giacche’ sempre in siffatti casi si e’
fatto riferimento alla tariffa vigente al momento in cui la
prestazione professionale si e’ esaurita (cfr., ad esempio, Cass. n.
5426 del 2005, e Cass. n. 8160 del 2001). L’attuale unificazione di
diritti ed onorari nella nuova accezione omnicomprensiva di
“compenso” non puo’ non implicare l’adozione del medesimo principio
alla liquidazione di quest’ultimo, tanto piu’ che alcuni degli
elementi dei quali l’art. 4 del decreto ministeriale impone di tener
conto nella liquidazione (complessita’ delle questioni, pregio
dell’opera, risultati conseguiti, ecc.) sarebbero difficilmente
apprezzabili ove il compenso dovesse esser riferito a singoli atti o
a singole fasi, anziche’ alla prestazione professionale nella sua
interezza. Ne’ varrebbe obiettare che detti elementi di valutazione
attengono alla liquidazione del compenso dovuto al professionista dal
proprio cliente, sembrando inevitabile che essi siano destinati a
riflettersi anche sulla liquidazione giudiziale effettuata per
determinare il quantum delle spese processuali di cui la parte
vittoriosa puo’ pretendere il rimborso nei confronti di quella
soccombente.
P.Q.M.
La corte rigetta ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese del giudizio di legittimita’, che liquida in Euro 5.000,00 per
compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.
Cosi’ deciso in Roma, il 25 settembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2012
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